Teatro

200 anni dopo l'Inganno è ancora felice

200 anni dopo l'Inganno è ancora felice

Duecento anni giusti giusti separano la prima apparizione de ' L'inganno felice' di Rossini andata in scena l'8 di gennaio del 1812 al Teatro di San Moisè in Venezia, da questo nuova riedizione inserita nel cartellone della Fenice ma approntata nella sala liberty del Teatro Malibran, erede dell'antico Teatro di San Giovanni Crisostomo. Tempo di carnevale era allora, tempo di carnevale ancor oggi: ma questa produzione segna l'avvio di un progetto che si estende ben oltre questa particolare contingenza, prevedendo nell'arco di un paio d'anni l'esecuzione di tutte e cinque le farse scritte per il San Moisè da Rossini. Un giovane musicista più o men che ventenne, ma già saldo nel mestiere di compositore teatrale, e già in grado di esibire anche quella facilità melodica, quella fantasia, quella verve e quella vena ironia che insieme avrebbero costruito in breve un fenomeno di portata europea. Genere popolare per eccellenza, la farsa in un atto della durata di un'ora o poco più incontrava a Venezia, ai primi dell'Ottocento, fortuna particolare: due d'esse, con l'aggiunta di uno o due balletti, confezionavano una serata adatta per un pubblico meno aristocratico ed esigente che quello della Fenice e del San Benedetto. 'La cambiale di matrimonio', 'L'occasione fa il ladro', 'La scala di seta' e 'Il signor Bruschino' ebbero poca o nulla diffusione fuor della Laguna veneta; al contrario, 'L'inganno felice' ebbe singolare fortuna dentro e fuor d'Italia. La  ritroviamo infatti presentata, ad esempio, in sale di assoluto riferimento: nel 1815 al Fiorentini di Napoli, nel 1816 alla Scala di Milano, nel 1824 al Théâtre des Italiens di Parigi, contribuendo a diffondere il nome e la gloria del Pesarese. Il motivo di tanto gradimento de 'L'inganno felice' stava non solo nelle effettive qualità musicali e sceniche, ma anche nell'avvicinarsi ad una vera e propria opera semiseria, nella quale l'elemento comico non prevarica ma contraddistingue solo due dei protagonisti (Tarabotto il minatore e Batone, confidente del malvagio Ormondo), lasciando così aleggiare altrove un clima di tenero sentimentalismo. Discostandosi dai consueti schemi del genere farsesco, insomma, il trattamento musicale di Rossini prelude già ai futuri capolavori, e pur nella brevità generale  consegna delle arie impegnative ai due protagonisti; ed asseconda intelligentemente il zigzagante dipanarsi dell'intreccio adottato dal librettista Giuseppe Foppa, caratteristico delle classiche pièces à sauvètage. Isabella, sposa fedele del Duca Bertrando, per le calunnie di Ormondo che ne voleva invano le grazie, è creduta fedifraga ed abbandonata in mare; viene però salvata dal capo dei minatori Tarabotto, che la fa passare per la nipote Nisa. Per un caso della sorte, viene infine ritrovata dopo dieci anni da Bertrando, che la crede morta ed ancora la rimpiange; i due si riabbracciano alla fine, dopo che si è scoperto l'inganno di Ormondo, e sventato un ultimo tentativo di farla sparire.
Viste le attenzioni di Rossini, non fu un caso che 'L'inganno felice' fosse nei suoi primi giri affidata sovente a fior fiore di cantanti, meglio se provetti belcantisti. Inizia onorevolmente la serie il giovane basso Filippo Galli - Batone alla prémiére veneziana e Tarabotto in numerose riprese successive - divenuto poi una vera star del melodramma italiano, ed esecutore rossiniano per eccellenza. Non era male neppure il soprano Teresa Giorgi-Belloc, anch'essa presente alla medesima prémiére; sostituita però nelle riprese primaverili al San Moisé da Maddalena Cera, per la quale il Pesarese scrisse un'ancor più acuta ed impegnativa aria alternativa a quella centrale della protagonista, «Se pietade in seno avete». Tra quanti affrontarono allora questa deliziosa partitura, giova ricordare almeno due nomi: quelli del prodigioso tenore Giambattista Rubini nel ruolo del Duca, e il basso cantante Antonio Tamburini in quello di Batone. Vale a dire, due tra i massimi interpreti delle opere belliniane.
Purtroppo, la figura che mancava in queste recite veneziane del Teatro Malibran era proprio quella del Duca, al quale Rossini assegna un'aria d'ingresso - «Qual tenero diletto» - tutta fiorettature e abbellimenti, in un canto intriso di coloratura, dal tono sentimentale ma di tenore decisamente virtuosistico. Non che il giovane tenore spagnolo David Ferri Durà non eseguisse quanto scritto, per carità: ma mancavano nel suo statico Bertrando la scioltezza, la freschezza e l'eleganza, doti invero basilari per siffatti ruoli tenorili. E pure, lasciatemelo dire, mancava un bel timbro e avrebbe giovato un po' d'intonazione in più. Meglio per fortuna funzionava altrove, là dove il lato virtuosistico cedeva a favore di un tenero melodismo, come nel primo duetto con l'amata Isabella, o di serrata concitazione come nell'imponente concertato a tre «Quel sembiante, quello sguardo» . Problemi simili il canto agile e vigoroso di Marina Bucciarelli non aveva di certo: assetto vocale ben costruito e persuasivo sin dalla languida sortita di «Perché dal tuo seno», e poi alle prese di un'aria più impegnativa come «Al più dolce e caro oggetto», pensata per mettere a fuoco il carattere sensibile e tenero, ma anche fiero di Nisa/Isabella. Molto indovinata la scelta di porre i due ruoli buffi - quello di Tarabotto e di Batone - nelle mani di due interpreti capaci e disinvolti quali Omar Montanari e Filippo Fontana, palesemente a proprio agio nello spassoso duetto dei bassi «Va taluno mormorando» - vero asse mediano della partitura - in cui ognuno tenta di confondere l'altro: il primo volendo proteggere Isabella, il secondo cercando di svelarne l'effettiva identità. Filippo Fontana, poi, sa sciogliere con vivace brillantezza il primo passo solistico assegnato a Batone, «Una voce m'ha colpito», ed aprire con eleganza il bel concertato finale di sapore mozartiano. Bene anche Marco Filippo Romano, che nelle vesti di Ormondo non ha avuto problemi ad affrontare la breve, stereotipata aria «Tu mi conosci e sai».
La frizzante concertazione di Stefano Montanari merita un elogio: la traccia narrativa ed i subitanei mutamenti d'atmosfera, che alternano di continuo sentimentalismo e comicità, vengono collegati con spirito garbato e grande intelligenza; i cantanti appaiono sempre scortati con molta attenzione, mentre la trasparente strumentazione rossiniana, sin dalla vaporosa Sinfonia - la stessa del 'Ciro in Babilonia'- trova modo d'essere sempre valorizzata al massimo grado. In questo, molto ha giovato l'agile e precisa formazione strumentale della Fenice, ed il tocco raffinato di Stefano Gibellato al fortepiano.
Bepi Morassi, direttore della produzione artistica della Fenice, era presente in veste di regista, ma anche quale coordinatore d'un progetto - l'Atelier della Fenice al Teatro Malibran - che vedrà gli allievi della Scuola di Scenografia dell'Accademia di Belle Arti veneziana cimentarsi in tutti gli aspetti produttivi d'una opera, cominciando da questa prima esperienza e proseguendo con le altre farse rossiniane poste in programma. Scene, costumi e luci sono quindi frutto rispettivamente di Fabio Carpene, Federica De Bona e Andrea Sanson, che hanno lavorato sotto la guida dei loro tutors; ma all'esperienza hanno partecipato anche altri compagni di accademia, tutti citati in locandina. Sulla scena, al pubblico erano presentate le emergenze di una miniera, con esterni d'aspetto tetro e desolato; il Duca e i suoi erano vestiti con le divise dell'esercito italiano dei primi Novecento, con tanto di bandiera sabauda, Isabella, Tarabotto e i minatori come si conveniva a gente dimessa; la sottile regia di Bepi Morassi ha accompagnato tutti verso una recitazione naturale e pertinente.